Quando il colpevole si traveste da enigma
Riguardo le interviste di condannati per omicidio in televisione.
In Italia le storie di cronaca nera non finiscono mai. Neanche quando le sentenze sono definitive, il giudizio è concluso, i giudici hanno fatto il loro mestiere e quel famoso “oltre ogni ragionevole dubbio” è stato pronunciato come un Amen laico. Eppure, il pubblico continua a seguirle con la fedeltà di una soap opera: puntate, colpi di scena, interviste, revisioni, podcast, “speciali” su Retequattro. Ma perché?
Una ragione c’è. La costruzione del mistero, un genere letterario in cui eccellono alcuni condannati e i loro difensori. È il classico trucco del “non è come sembra”, lo stesso che usa il marito beccato in flagrante con l’amante sul sedile posteriore, che però giura: “Tesoro, non è come pensi”. Ecco: l’innocenza ostinata, sbandierata contro ogni evidenza, è un’arma. Non per cambiare la realtà, ma per seminare il dubbio. Che, si sa, è più resistente della verità.
Attraverso un gioco di rimbalzi tra accuse e controdeduzioni, si apre un campo da tennis mediatico dove la palla della responsabilità viaggia veloce e confonde. Alcuni match sono entrati nell’immaginario collettivo come Chiara Poggi e Yara Gambirasio. Ci basta sentire “Stasi” o “Bossetti” per sapere che siamo in territorio minato. E che, in fondo, una parte del pubblico non è del tutto convinta. “E se fosse innocente?” si chiedono davanti a una serie Netflix.
Un conto è avere una buona difesa legale, un altro è saper reggere l’impatto mediatico di una condanna. E qui, Bossetti, diciamolo, non brilla.
La sua recente apparizione da Francesca Fagnani a Belve avrebbe dovuto essere il colpo di scena, l’occasione per scuotere le convinzioni, spiazzare, confondere. Invece, niente: è sembrato uno intento a fine a giornata a raccontare la sua versione dei fatti a un amico al bar, con la stessa efficacia di un “giuro su mia madre” dopo la terza birra. Un pubblico ormai abituato a CSI, podcast forensi e thriller psicologici, pretende di più. Vuole retroscena, incongruenze, colpi bassi. Non basta più dire “non sono stato io”: bisogna dimostrarlo, o almeno raccontarlo bene.
Se vuoi mettere in dubbio una prova come il DNA — e quello di Bossetti è stato trovato sul corpo di Yara, mica sul banco del mercato — devi farlo con eleganza, strategia e un pizzico di carisma. Altrimenti il tuo “sono innocente” suona vuoto, come un karaoke stonato.
In un mondo dove l’informazione è spettacolo e il processo continua sul palcoscenico dei media, non basta essere colpevoli o innocenti: bisogna saperlo comunicare.
Il caso di Yara è una tragedia, e come tale dovrebbe essere trattato. Ma la recita di chi, da condannato, prova a diventare protagonista di un giallo senza soluzione... quella è solo una prova da attore mediocre. E il pubblico, anche quello più curioso, alla lunga se ne accorge.
Parliamo di cose importanti.
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La guerra infinita
Appunti
+ Nel settore della ristorazione, il 50% dei lavoratori è precario. Pensate un po', l'altro 50% non ha nemmeno un contratto vero.
+ Incredibile. Ieri sera ho visto uno spot pubblicitario dove non c’era Sinner come testimonial!
+ Quella su Trenitalia non è aria condizionata ma un programma di ibernazione per farti arrivare giovane come quando hai iniziato il viaggio.
+ Oggi ci sono adolescenti che non hanno mai visto l'Italia ai Mondiali di calcio. E se gli dici che andavamo quasi sempre in finale (e a volte vincevamo pure), giustamente non ci credono.
La grigliata più lunga della storia.
Diciamolo bene.
- Di dove sei?
- Palermo
- Ah, Palermo..Sicilia...mafia!!
- No..Palermo..Sicilia..Falcone, Borsellino, Peppino Impastato!!!
E adesso si prega!