Nina non conosceva gli alberi. Ma conosceva i cancelli.
Quando l’hanno incontrata la prima volta, Nina aveva due anni. Due. Non sapeva cosa fosse un albero, una macchina, una casa. Sapeva dire poche parole – “mamma”, “ninna”, “no” – e le diceva con la densità dei sassi. Parole che non rotolano: cadono.
Nina è cresciuta in carcere. Ci è entrata a otto mesi, con la madre. Età in cui i bambini iniziano a parlare, a esplorare, a indicare il mondo e chiamarlo per nome. Lei, invece, ha imparato a riconoscere le chiavi, il tintinnio dei mazzi appesi alla cintura della polizia penitenziaria, le porte che si aprono solo se qualcuno decide. Il fuori, per lei, era una leggenda.
A raccontare la sua storia sono le educatrici di Prima Persona Plurale, un progetto nato per sostenere i figli dei detenuti, dentro e fuori il carcere.
Le educatrici si accorgono che ogni settimana circa 300 bambini entrano nel carcere di Lecce per vedere mamma o papà. Aspettano, seduti su una panca, per un’ora. A far niente. E allora nasce l’idea: inventare uno spazio per loro. Compleanni in carcere, con candeline vere. Attività da fare insieme ai genitori. Proiezioni di film. Giardinaggio. Una normalità costruita con cura, come un orto tra i muri.
Poi arriva Nina.
Una bambina che non visita il carcere. Ci vive.
Un’educatrice si sdraia sul pavimento per darle un cerbiatto di peluche. Nina guarda, stringe, e dice “No”. Sempre “no”. È la sua barricata. È il suo modo di dire: “Io ci sono, anche se non potete vedermi”. Quel peluche diventa un simbolo. È la chiave (e non è una metafora) per accompagnarla fuori.
Fuori, Nina scopre il mondo. Lo indica. Ma non lo sa nominare. Gli alberi? Nuovi. Le macchine? Misteriose. Le case? Incomprensibili. Al nido tocca gli altri bambini come se fossero alieni. E chiede sempre: “Posso?” Anche per passare da una stanza all’altra, anche dove non ci sono porte. Perché ha imparato che ogni passaggio ha bisogno di un permesso.
A tre anni, la legge impone la separazione: via dal carcere, punto. Ma le educatrici protestano: 15 giorni non bastano. Non per Nina. Serve tempo. Ne ottengono sei mesi. Sei mesi per fare pigiama party con gli zii (che Nina non conosce). Sei mesi per cominciare a dire: “Il carcere è la casa della mamma”. Poi: “Ma così la lascio sola”.
È lì che arriva l’altro macigno. Il senso di colpa. E allora, con pazienza, le psicologhe spiegano: “La mamma andrà con altre compagne. Starà bene.” Servono parole. Ma servono anche coraggio e tempo.
I figli dei detenuti non sono numeri. Sono bambini. Con compiti da fare, vacanze da vivere, giochi da condividere. Il carcere, a volte, li tiene dentro. Altre volte li lascia fuori, ma non li lascia liberi.
“Abbiamo restituito a Nina un’infanzia” – dicono le educatrici. “Abbiamo trasformato il suo sacchetto di parole in un cesto pieno di coriandoli colorati. Ora può lanciarli in aria, ridere, correre. E chiedere, come solo i bambini sanno fare: ‘Posso?’”
E adesso si prega!