I dazi suonano come una roba da manuale di economia o da thriller ambientato in dogana. E invece no. I dazi sono tasse, molto vere e molto concrete, che finiscono per trasformare una bobina d’acciaio da 100mila dollari in un rotolo da 125mila. Il tutto perché un presidente (nome in codice: Trump) ha deciso che il Made in USA ha bisogno di una corazza.
Cosa sono, in parole povere?
I dazi sono un balzello che si paga per far entrare merci straniere in un paese. Tipo: se esporti lattine in USA, potresti dover sborsare un 25% in più solo per farle entrare. E no, non è una mancia per i doganieri simpatici: è legge. L’obiettivo? Proteggere le industrie locali, magari rendendo meno convenienti i prodotti esteri. Una specie di “prima la ghisa nostra”.
Chi paga davvero?
Tecnicamente, l’importatore. In pratica, dipende. Ci sono accordi, clausole (gli Incoterms, roba da commercialisti col mal di testa), trattative: a volte paga chi vende, a volte chi compra, spesso un po’ e un po’. Il risultato? Alla fine, il conto lo paghiamo anche noi: consumatori ignari che si ritrovano a pagare 2 euro in più per una birra “artigianale” importata da chissà dove.
E poi? Poi guadagna il governo. Sempre.
Mentre aziende, distributori e clienti si scannano per chi deve pagare cosa, i governi incassano. L’Unione Europea, per dire, ci fa il 14% del suo bilancio. E Trump? Ha fatto raddoppiare le entrate doganali tra 2017 e 2021. Poi però ha dovuto usarle per risarcire i contadini incavolati per aver perso i mercati. Più che un affare, una partita di giro.
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